Nel corso dell'ultimo decennio la cultura architettonica è terrorizzata dalla fine dello spazio pubblico, giudicata da più parti imminente. Per questo il caso studio della Corea del Sud – e di Seoul in particolare – può essere salutare: perché indaga senza pregiudizi ideologici una sostanza urbana che è già del tutto «indifferente alle relazioni urbane o al contesto pubblico». Le due tipologie squisitamente coreane di “apart” e “bang”, vale a dire delle "case a catalogo" e delle "stanze a noleggio", esemplificano bene questo atteggiamento che è prima di tutto culturale: gli “apart”, peraltro montati in serie in grandi strutture modulari come garage, sembrano il coronamento del sogno modernista della «machine à habiter» – al punto che sono persino munite di targhe; i “bang” invece ne rappresentano il rovescio della medaglia, perché esplicitano il carattere introverso e decontestualizzato degli interni coreani, al punto che le finestre sono in genere opache. I progetti qui presentati da un lato accettano lo status quo e dall'altro ambiscono a creare prototipi maggiormente relazionati ai servizi e allo spazio pubblico, grazie anche ad alcune tecnologie specifiche dell'acciaio che favoriscono la produzione di strutture flessibili e replicabili. Del resto Rem Koolhaas, che da anni studia conurbazioni urbane quali Singapore o Hong Kong, ci ha già avvertiti dell'urgenza di ricerche come “Steel Life”, perché la città asiatica «è divenuta un modello per l'ambiente che ci circonda: molti dei suoi temi, attualmente, infestano il nostro cortile di casa».
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