«L’emicrania è piena di senso. Più che traboccare di
argento vivo lucente e colorato, trabocca di
significato. L’emicrania è la mia contraddizione, la
mia condanna, la mia lacerazione, qualcosa che mi
marchia, come un ferro arroventato, che però si
arroventa al contrario con un fuoco
spaventosamente freddo».
Nessuno avrebbe mai potuto pensare che un erudito come il messicano Antonio Alatorre avesse scritto qualcosa di diverso da saggi, biografie o critiche letterarie. Ma alla sua morte, nel 2010, i tre figli ritrovano in una cartella un centinaio di pagine battute a macchina e chiosate in bella calligrafia. È un romanzo segreto, rimasto incompiuto. Non è difficile capire che Guillermo, il protagonista, l’anziano professore seduto nel giardino di casa con un gin tonic in mano, sia loro padre. Antonio Alatorre aveva urgenza di raccontare la sua infanzia, i “beati anni del castigo” in seminario – dai dodici ai venti, senza vocazione – dove scopre la musica e la letteratura, e con esse il proprio talento. E dove, sintomo di un profondo malessere spirituale, l’emicrania lo perseguita. Fino al momento in cui, in un gabinetto di legno nel parco del convento, il suo corpo erotico si risveglia, lo scuote e gli apre le porte di un mondo diverso. “La mia scrittura è un ritratto della mia coscienza. Scrivere significa accettare la mia irrealtà, la mia morte e anche la mia realtà, la mia unica vera realtà. Poiché non si tratta soltanto del plumbago di Autlán, dei meli della casa di Tlalpan, o del prato di questa casa, appena tagliato: anche io mi derealizzo e divento un fantasma a ogni parola che scrivo”.
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