Della trinità Federer-Nadal-Djokovic, lo svizzero e lo spagnolo si sono sempre distinti per uno status semidivino. A rovinare il dualismo perfetto è arrivato, all'improvviso, il terzo incomodo: un serbo smilzo e riottoso, dal corpo snodabile, cresciuto sotto i bombardamenti NATO su Belgrado. Novak Djokovic è il simbolo dell'umano che sfida gli dèi, e che alla fine – grazie a qualità atletiche straordinarie, alla cura maniacale per il proprio corpo, alla vocazione alla sofferenza – riesce ad affrontarli alla pari. E addirittura a batterli, superandoli in ogni statistica. Nonostante i numeri, però, la stragrande maggioranza dei tifosi non ha mai amato i suoi atteggiamenti da villain, il suo tennis mentale, sparagnino, in grado di far risaltare i punti deboli degli avversari. Giancarlo Liviano D'Arcangelo ribalta questa verità e racconta Djokovic da una prospettiva inedita. E ci spiega perché amare «The Djoker» è un atto rivoluzionario. L'atto di chi riesce a continuare a credere nella capacità tutta umana di andare oltre sé stessi e costruire il proprio destino.
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