Per molti, nella storia del calcio italiano, Gigi Riva è stato l’ultimo degli eroi. Ai suoi tempi, tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, la televisione non aveva ancora cancellato l’epica dello sport, il racconto dei testimoni contava più delle immagini. E Riva, nel breve volgere della sua straordinaria carriera, è riuscito a trasformarsi davvero in un personaggio epico, cantato e raccontato da compagni e avversari, tifosi e non tifosi, giornalisti e scrittori. Gianni Brera lo ha chiamato «Rombo di Tuono», ma è stato Gianni Mura a trovare la definizione più calzante, più letteraria: «Hombre Vertical». Un uomo che non si piega ai guadagni facili, alle lusinghe dei potenti, alle scelte di comodo. Ancora oggi il nome di Riva evoca insieme la forza e la correttezza, il talento e l’integrità. Un’isola intera, la Sardegna, lo ha eletto per sempre a monumento della propria identità – lui che non era nemmeno sardo, ma lombardo di Leggiuno, «sponda magra» del lago Maggiore. Perché? Bisogna dipanare con pazienza e stupore tutto il filo della sua romanzesca avventura, dai lutti dell’infanzia allo scudetto vinto col Cagliari (il primo di una squadra del Sud), dalle leggendarie imprese messicane al cammino esemplare come team manager della Nazionale, per capire appieno il percorso di un uomo che ha attraversato la povertà, il dolore, la rabbia, la gioia, la sfortuna, la gloria, l’orgoglio, la serenità, senza mai smettere di essere vertical.
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