“Carver […] ha saputo come pochi raccontare questo impegno verso l’umanizzarsi dell’umano […] Lo ha fatto mettendo in scena persone […] di bassa estrazione sociale o comunque in difficoltà, spesso dominate/i da alcolismo, solitudine, debiti, relazioni invischianti, episodi di vita devastanti e che sembrano destinate a sprofondare, […] ma che sono capaci di restituirci in modo poetico il senso dello stare al Mondo, del nostro essere nel Mondo e di abitarlo. Come sanno coloro che conoscono Carver, si tratta di storie che lo scrittore conosce molto bene, perché le ha vissute in prima persona. E proprio per questo sorprende che nelle sue narrazioni non ci sia mai nessun intento consolatorio o di riscatto, così come – ma questo è l’elemento più macroscopico – siano del tutto assenti atteggiamenti tendenti al giudizio o moraleggianti. E questi aspetti non ci sono nelle sue narrazioni perché Carver ha offerto una propria visione di approdo dell’umano e all’umano abitando una dimensione fondamentale che attraversa la sua vita e la sua opera. Parliamo della tenerezza […] che non ha nulla a che vedere con debolezza o con visioni ireniche della vita.
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