We talkin’ about practice, man. Not a game. «Stiamo parlando di un allenamento, amico. Non di una partita». È il ritornello che Allen Iverson, in preda ai fumi dell’alcol, pronunciò all’infinito in una famigerata conferenza stampa del 2002. I suoi Sixers erano stati buttati fuori dai playoff e lui si era scontrato per l’ennesima volta con il coach Larry Brown. È attorno a questo episodio, presagio di una vertiginosa caduta, che si avvolge come una spirale l’irrequieta esistenza di A.I., o The Answer, com’era noto a quei tempi. La maglia numero 3, le treccine, i tatuaggi, i quattro titoli dei punti, le Finals da protagonista contro i Lakers di Bryant e O’Neal; ma anche le violenze coniugali, l’infanzia senza padre, un patrimonio da milioni di dollari sperperato per mantenere amici, parenti e auto di lusso, la rissa nella sala da bowling e l’arresto a diciassette anni che per poco non gli bruciò la carriera. Qui c’è tutto Iverson, scontroso, lunatico, ribelle: il cestista più elettrico della Nba, forse il più amato dai tifosi (che nei suoi difetti e nella sua statura si identificavano), il ragazzo dal sorriso disarmante che amava correre sul ciglio dell’abisso. Basandosi su centinaia di articoli e interviste, oltre che su una mole preziosa di documenti processuali, Kent Babb ripercorre la parabola di un’icona del basket e della cultura hip hop, un talento eccentrico e dirompente, le cui fortune hanno virato più in fretta del suo irresistibile crossover.
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