La storia dei deportati italiani nei campi di concentramento nazisti è un argomento tutt'ora poco conosciuto sotto diversi aspetti. Gli italiani sono tra gli ultimi deportati, nel momento in cui, verso la fine della guerra, da una parte il lager è una macchina di sterminio, dall'altra un campo adibito ai lavori pesanti, nel quale i prigionieri sono impiegati come manodopera per la produzione bellica sino alla loro morte per sfinimento, fame, malattia. Sono poi considerati traditori dai nazisti, e fascisti dai loro compagni di prigionia spagnoli, francesi, russi. Sono dunque vessati più di altri e isolati, anche perché non conoscono il tedesco né in generale altre lingue, non riescono a decifrare il mondo autonomo, sconosciuto, artificiale, costituito dal campo di concentramento. Questa è la condizione che da una parte causerà la morte immediata di molti di loro, e dall'altra porterà altri ad apprendere elementi essenziali alla sopravvivenza della lingua tedesca dei nazisti e della lingua franca parlata dai prigionieri. Il racconto della deportazione, condotto attraverso la prospettiva del linguaggio, fa emergere la logica che determina la vita dell'intera popolazione del lager: il rapporto tra sorveglianti e sorvegliati e i rapporti tra prigionieri. I prigionieri, anche nella condizione estrema del lager, con la parola possono lottare per sopravvivere, per resistere, per solidarizzare. La lingua franca, sorta dall'incrocio e dall'accostamento di vari idiomi dei deportati, che assume anche l'aspetto del gergo e del linguaggio in codice, aiuta a procurarsi qualcosa da mangiare, acquisire informazioni sui pericoli da evitare, decodificare la realtà, decidere come comportarsi. Un saggio ricco di testimonianze, basato sui racconti di decine di internati. Racconti strazianti e di altissimo valore storico, memorie orali o scritte, in molti casi finite in archivi e mai pubblicate fino a ora.
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