Inizia e muore nel tradimento questo libro di fiamme e di onnipossenti cieli, fatto – si direbbe – per consolare mozzando la lingua. È un libro pieno di idolatri, di anatemi, di massacri; il premio offerto è raro ("Io mi adopero per ravvivare il cuore degli ultimi e per ridare speranza a chi è nel pianto") ma salvifico: va custodito in questi tempi cattivi, con la cataratta. Isaia, formulario d'urla e rotolo iniziatico, come si sa, innesca l'ordigno sconvolgente che porta a Gesù: "la fanciulla appena divenuta donna concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele". Secondo Guido Ceronetti, biblista eversivo, Isaia "è un punto di sospensione nel respiro del destino umano". Scevra di esoterismi col Suv e di gnosi à la carte, la traduzione di Gian Ruggero Manzoni conferisce al profeta una lingua che dissotterra gli arcani e disintegra i tabù. Al contempo, riconosciamo in Isaia il precursore di Dante, di William Blake, di Rimbaud, rivediamo – in questa versione di brutale veemenza e di inattesa tenerezza – i film di Andrej Tarkovskij e i “miti di Cthulhu” di Lovecraft. Qui tutto è cannibale, tutto è innocente. Tramite il lavacro sacrificale (da leggere e rileggere il capitolo 53: "Si era erranti come pecore; ognuno di noi, sbrancato, seguiva una sua via, e l'Eterno ha proiettato su di lui le nostre perversioni") il traditore rientra nella fede, al tradimento segue l'amore.
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