Viviamo nel conflitto. Dalle relazioni intime alla geopolitica, abitiamo un mondo di differenze in cui i nostri desideri, i nostri gusti, i nostri limiti, i nostri valori, le nostre credenze sono costantemente in tensione con quelli dell'altro. Viviamo nel conflitto e non lo sopportiamo. Incapaci di gestire il disagio dell'incomprensione umana, preferiamo pensare il mondo in termini di vittime e carnefici, esacerbando e manipolando la paura per evitare di affrontare noi stessi. Illuminando la differenza tra «conflitto» e «abuso», l'autrice interroga la cultura della stigmatizzazione, e lo fa partendo dalle relazioni a due e allargando via via l'analisi per arrivare a parlare di guerra. Il meccanismo, ecco l'intuizione folgorante, è lo stesso: chi vive un'esperienza conflittuale tende a esagerare il danno subito e cerca sostegno in un gruppo - familiare, sociale, religioso, nazionale - segnando l'inizio di un'escalation che non fa che moltiplicare l'ingiustizia e la violenza. Sarah Schulman azzarda quindi uno sguardo critico anche lì dove sollevare equivale a giocarsi le mostrine da progressisti: guarda con sospetto ai trigger warning, cerca di sezionare la logica interna della brutalità della polizia e degli abusi domestici, rifiuta di appiattire l'esperienza umana in slogan confortanti. E se invece di ostinarci a cercare il capro espiatorio cominciassimo a pensare in termini di responsabilità collettiva? "Il conflitto non è abuso" non è certo un libro che cerca il consenso: quel che insegue è il cambiamento. Un profondo cambiamento sociale che leggendo queste pagine appare più che mai necessario e, per una volta, realizzabile.
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