Se in anni recenti la Scapigliatura è stata oggetto di una prudente rivalutazione, Igino Ugo Tarchetti attende ancora un adeguato risarcimento. A esso provvederanno di certo quei lettori che lo sapranno leggere fuori dagli schemi delle storie letterarie. Perché Tarchetti è autore di frontiera, capace di dispiacere in pari tempo a tutti i contendenti dell’agone critico. Intriso fino al midollo di cultura romantica non provinciale, ma già presago della temperie decadente ormai alle porte, lo scrittore dà forma in questi racconti a tre figure di musicisti diversamente segnati dal marchio di elezione del genio creativo. La loro arte – inestricabilmente connessa all’amore, che è soprattutto vagheggiamento di una bellezza disincarnata – li condurrà fatalmente alla follia e alla morte. E d’altra parte, sullo sfondo di queste pagine arditamente composte, si delinea un complesso di soggetti e motivi che ancora accrescono il nostro interesse: dalla polemica contro il melodramma alla lettura della musica come arte suprema, e più insidiosa, perché incorporea, alle riflessioni sulla memoria, fino alle scandalose tirate misogine, che della donna rinviano però, per rispecchiamento, un concetto di elevatissimo tenore.
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