Siamo sull'orlo della prima estinzione di massa causata da una sola specie, quella che si autodefinisce sapiens. Abbiamo portato l'inquinamento fino alle cime himalayane. Stiamo lavorando per un clima più favorevole alle zanzare che agli esseri umani. Lanciare l'allarme è giusto: dobbiamo cambiare il modo di produrre e di vivere. Ma perché questo salto deve essere presentato come una rinuncia? In due secoli il sistema industriale ci ha regalato successi a cui nessuno vuole rinunciare. Per millenni vincere la lotteria della mortalità infantile è stata un'impresa e se si sopravviveva fino ai 40 anni si era già vecchi; oggi in Italia la speranza di vita supera gli 80 anni. Per millenni la fatica fisica è stata un incubo che ha piegato il corpo e avvilito lo spirito; oggi basta schiacciare un bottone per ottenere un docile concentrato di energia. Dopo secoli di avanzata vittoriosa dobbiamo far squillare la tromba della ritirata, cancellando i vantaggi assieme agli errori? Se l'ambientalismo viene presentato come un lungo elenco di privazioni, di abitudini da cancellare, di azioni da non fare resterà relegato in una nicchia di fan della decrescita. Ma tifare in astratto per la crescita o la decrescita è come sperare che un obeso aumenti il proprio peso o un anoressico lo diminuisca. Possiamo fare pace con l'idea di crescita dandole un senso diverso da quello che le viene generalmente attribuito: una crescita delle opportunità e dei piaceri che rispetta i limiti della fisica. Un'ecologia del desiderio invece di un'ecologia del dovere.
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