Fra i tanti punti di vista da cui si può interrogare la tradizione culturale tedesca, quello della traduzione è di sicuro il più rivelatore, in quanto porta in chiaro il rapporto singolarmente profondo che essa intrattiene dall’origine con ciò che è straniero, con l’alterità, appunto con l’“estraneo”, e il suo atteggiamento – non solo sotto l’aspetto linguistico – verso ogni forma di contaminazione, di ibridazione, di meticciato. Nessuna altra cultura moderna ha avvertito il problema in modo tanto intenso e tormentato, e dispone, per conseguenza, di un campionario così ricco di risposte. E in nessun altro caso la concezione che un pensatore ha del tradurre è così essenziale per comprendere a fondo tutti gli altri aspetti della sua riflessione. “Dimmi cosa pensi del tradurre e ti dirò chi sei”, affermava Heidegger in un corso su Hölderlin degli anni Quaranta: ciò vale prima di tutto per i tedeschi, la cui identità linguistica affonda le sue radici proprio nella traduzione luterana della Bibbia.
Per tutti questi motivi il saggio di Berman va a colmare un vuoto inaccettabile nel vasto panorama delle pubblicazioni legate alla “storia della cultura”. Ma il suo contributo va molto oltre. Obiettivo dell’indagine è anche reperire materiali per l’elaborazione di una teoria moderna della traduzione, e in questa direzione Goethe, i Romantici, Humboldt e Schleiermacher offrono un ausilio preziosissimo, ma soprattutto Hölderlin, le cui traduzioni da Sofocle - già da lungo tempo avvistate dai commentatori - restano ancora oggi, nel loro significato più profondo, un tesoro in gran parte sommerso. Proprio da Hölderlin Berman si mostra in grado di ricavare gli insegnamenti più fecondi per una riflessione adeguata sul problema: la traduzione ne risulta come una fonte insostituibile di esperienza, ben più penetrante che non la “critica” o l’“interpretazione”, esperienza della pura estraneità, della differenza come tale, e al contempo di possibilità quasi inesplorate del linguaggio, quelle che si sottraggono a ogni norma e rendono possibile e necessaria una traduzione letterale del testo straniero in un’altra lingua. Egli getta così le basi per una teoria, o meglio, una filosofia della traduzione letterale – anzi per una “scienza”, la traduttologia, che una volta tanto non è strumento di omologazioni e incasellamenti ma inventario dei punti di accoglienza per l’irriducibile alterità linguistica, quindi non imposizione di norme ma apertura a quelle che Berman, in un altro scritto, chiama zone non-normate della lingua.
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