Rendere il proprio corpo cosciente dei movimenti che ha fatto e degli urti che ha subìto. Mapparne cicatrici e fratture, perché viviamo con esso molto più tempo di quello che la nostra memoria ricordi. A partire da questa urgenza, Nadeesha Uyangoda indaga il complesso tema del rapporto tra corpo e pratica sportiva, alternando il racconto autobiografico alla narrazione di alcuni momenti storici chiave in cui lo sport – strumento di dominazione politica ed egemonia culturale, ma anche grimaldello per abbattere muri e scardinare falsi miti – ha contribuito in maniera determinante a definire le nostre identità di razza e genere. Esistono davvero gli sport da femmine e quelli da maschi? Quanto è radicato il razzismo pregiudiziale nelle piste di atletica, nelle corsie delle piscine e nei campi da calcio? È vero che certe etnie hanno una naturale predisposizione alla velocità, alla resistenza, alla sopportazione del dolore? E perché mai lo ius soli sportivo ha saputo guadagnarsi una certa dignità nel dibattito pubblico, a differenza dell'ipotesi di una sua applicazione generalizzata? Il corpo dell'atleta – allenato, modificato, disciplinato, valutato e mercificato, reso un oggetto – diventa così un prezioso canovaccio su cui vengono incisi i segni della cultura e della biologia, «il confine ultimo tra individuo e società, espressione di entrambe le barricate».
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