L’Ercole al bivio, libro «leggendario» di Erwin Panofsky, l’ultimo composto in lingua tedesca, nel 1930, prima dell’esilio americano, detiene entro l’opera complessiva del suo autore una posizione di soglia.
Non solo, infatti, Panofsky, con uno straordinario tour de force esegetico, scopre in un’enigmatica tela di Tiziano il simbolo tardo antico del tempo, ma ricollega questo simbolo all’immagine di Ercole al bivio fra vizio e virtù e, insieme, fra due stili di vita e due epoche storiche. Se, da una parte, la divaricazione tra sfera estetica e sfera morale – che il mondo classico aveva contemplato e la teologia medievale alimentato a fini apologetici – ambisce, con l’umanesimo, a ricomporsi felicemente nell’arte, dall’altra vediamo delinearsi un’altra divaricazione, non meno paradossale, quella tra medioevo germanico e modernità italiana.
Frutto maturo delle prime analisi teoriche dell’opera d’arte, l’Ercole è figura dello stesso Panofsky, al bivio tra le forme simboliche di Cassirer e l’empirismo «metafisico» di Edgar Wind. Da questa singolare posizione, esso da un lato rinuncia a ogni teoria esplicita per farsi pura immagine, dall’altro si guarda bene dal recidere il legame che unisce immagine e parola. Forma mediale per eccellenza, sulla scorta di Warburg qui è l’immagine artistica come tale a presentarsi, a colui che sa interrogarla, quale incessante nucleo generativo delle categorie atte a conoscerla.
Sono queste complesse e irriducibili polarità che il libro documenta con una sorta di profetica partecipazione. Rese antitetiche, e quindi risolte e smembrate, dalla fattualità storica, esse si conservano integre e feconde nella grande arte, sola in grado, secondo Panofsky, di costituire quel tertium fra passato e futuro, etica ed estetica, metafisica e storia, in cui si tempera la barbarie di ogni secca alternativa.
«Il giovane Ercole si trova da tutt’altra parte che a un “bivio” ma, incalzato dai dubbi su quale “via” intraprendere nella vita, si è appartato in un luogo solitario non ben precisato, dove se ne sta in meditabondo raccoglimento. Ecco allora apparirgli due donne dai tratti riconoscibili, “grandi”, vale a dire due figure ultraterrene. L’una, riconosciuta da tutti come Virtù, ha un aspetto sano e nobile, veste di bianco: la pulizia dello stile è il suo unico ornamento, ed essa si avvicina con sguardo modesto e portamento pudico. L’altra, al contrario, conosciuta dagli amici come Felicità, dai nemici come Vizio, ha forme morbide ed esuberanti, truccata, così da sembrare più bianca e più rossa di quanto non sia nella realtà, e con un portamento che dà l’illusione di una figura ben più eretta di quanto non sia: si guarda intorno con occhiate impudiche, mentre le vesti non lesinano la vista delle sue grazie. In due discorsi e in una replica entrambe gli promettono, ciascuna a modo suo, di condurlo alla felicità – l’una mediante il piacere e l’ignavia, vale a dire percorrendo la via “più piacevole e comoda”, l’altra attraverso fati
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