Salvare le ossa è il primo libro della trilogia di Bois Sauvage di Jesmyn Ward. È uscito l’anno scorso, e quest’anno l’ha seguito Canta, spirito, canta, il secondo volume. Proprio la curiosità nei confronti di quest’ultimo mi ha spinto a iniziare la lettura della trilogia. Ho chiuso qualche giorno fa il libro e ho scelto di scriverne a caldo, con ancora addosso tutte le conseguenze. La premessa doverosa è che a me il libro è piaciuto moltissimo. E non avevo dubbi, perché me lo avevano giustamente descritto come caratterizzato da una scrittura poetica, metaforica, simbolica ed evocativa: uno stile capace di accontentare i miei gusti di lettrice. Recensione di Salvare le ossa di Jesmyn Ward, NNE Editore Sapevo poco della storia in sé, mi bastava la copertina con il cespuglio da cui emerge il volto di una bambina dalla pelle scura, rigato dalle lacrime e con gli occhi chiusi, con frondosi capelli ricci. È Esch, la protagonista del libro, giovanissima: quattordici anni. La narrazione è la sua parola in prima persona, il flusso di coscienza, il resoconto e i dettagli dei dodici giorni che precedono l’irruzione violenta dell’uragano Katrina nella sua vita, e nella vita dei suoi famigliari: tre fratelli e un padre alcolizzato. L’assenza della madre, morta di parto nel dare alla luce il fratello più piccolo, aleggia nell’aria come un cataclisma che prelude a eventi sconvolgenti, che effettivamente si manifesteranno con una furia che si può solo intuire. Esch è una eroina sporca di fango e mal vestita. La sera legge i miti greci e si ritrova sorella e complice di Medea, così magica e perdutamente innamorata, così pronta alla ferocia per il suo puro amore. Ma non vive in un’altra epoca, vive nel 2005. Precisamente in un luogo che si chiama la Fossa, un avvallamento, tra baracche e boschi, in una zona del Missisipi chiamata Bois Sauvage. E di legno e di selvaggio è pieno lo spazio, quello selvatico dei boschi, quello delle baracche tirate su e protette malamente contro la catastrofe e delle contrapposte casette ordinate dei bianchi più lontane. In questo spazio c’è la dolcezza e la violenza della natura che strappa e scalcia, che germoglia dentro i corpi, regala tuffi dentro pozze melmose in cui cercare di afferrare l’amore, quello poderoso ed epico dell’adolescenza, nei confronti di Manny, amico del fratello Randall. Una natura incolta e brusca che si incarna in un’altra protagonista, una sorta di animale guida di Esch: il pittbull da combattimento di Skeetah, il fratello maggiore, sfrontato e silenzioso. China, questa cagna che nel capitolo iniziale partorisce i suoi cuccioli in un’apertura di romanzo lacerante, è madre, è violenta, è ferita, è leale. È la furia imprevedibile delle sue mascelle chiuse sulla gola di un rivale maschio, incalzata da una preghiera recitata dal suo padrone durante un combattimento nel mezzo di una radura, in cui tutti assistono alla sua rivalsa. Tutti i protagonisti del libro, la osservano avere comunque la meglio, su tutto ciò che la circonda. Come la natura, che sappiamo arriverà a travolgere ogni cosa. Lo sappiamo. Per tutti i capitoli avvertiamo la rincorsa paziente e determinata del vento, della pioggia a maturare sulle nubi apparentemente lontane. Inizialmente è il padre ad avvertire dell’imminenza, ma sono come i deliri di un povero vedovo ubriaco. Poi il delirio si fa preoccupazione crescente, e tutta la famiglia, mal ridotta e alle prese con altre questioni apparentemente molto più grandi, è costretta a ricucirsi per far fronte al disastro che si preannuncia violento e imprevedibile. Esch, i fratelli, il padre, China e i suoi cuccioli si ritroveranno ad attendere Katrina dentro la casa buia, con le finestre serrate da legni di fortuna. Nell’oscurità saranno contenuti come dentro un ventre materno e il travaglio e la fase espulsiva porteranno fuori i segreti maturati, i legami indissolubili, i dolori irrisolti. Bellissima la nota della traduttrice Monica Pareschi, che sottolinea alcuni punti di forza del romanzo. Il differente ambiente sociale e geografico in cui si muove la narrazione, così distante se non opposta a buona parte della letteratura americana di recente pubblicazione in Italia. La capacità di raccontare l’eccesso della violenza naturale, umana e animale con una lingua che sfida il successo della corrente minimalista. La struttura archetipica della storia, dove madre, radici, acqua, diventano concetti capaci di mostrare un dialogo potente tra il reale e il simbolico. Non solo, Monica Pareschi ribadisce e valorizza la capacità della Ward di disegnare i conflitti atavici e quotidiani – l’eros di coppia, la relazione con il materno e il maschile all’interno della comunità – e soprattutto l’identità delle donne afroamericane, dentro la cornice della mitologia classica. La traduttrice chiude sottolineando la potenza dei contrasti e delle immagini evocate dallo stile di Jesmyn Ward, la sua cruda selvaticità, la sua emotiva coscienza. Vorrei che questo articolo fosse anche un modo per ringraziare per questa nota. Ringraziare la traduttrice e l'editore, perché lascia il lettore ancora più consapevole dei livelli di lettura che regala il romanzo e delle scelte fatte per la traduzione italiana, ad esempio rispetto all’utilizzo dei verbi e alla parlata afroamericana. Aspetti non secondari per chi legge e indaga. Queste note a termine di un libro sono quanto di più bello si possa incontrare e accogliere a termine di un romanzo, offrono la possibilità di vedere il libro non solo come un libro, ma come un'opera che nutre e si nutre di correnti, professionalità, visioni, suggestioni molto più ampie e importanti. Bello che giungano dalla penna della traduttrice, un punto di vista che forse a volte viene tenuto in poca considerazione. Ora sono pronta per leggere il secondo volume, Canta, spirito, canta, certa di trovare nuovamente qualcosa di sconvolgente e improvviso come un uragano. recensione a cura di Elisa Cappai Di questo libro è uscito anche l'audio libro